Caro Leonardo,
questa volta tocca bacchettarti un po’ pure a me. Nonostante le parole finali del tuo post sembrino copiate da “Dire la verità”, lo sembrano solo. “Dalla parte della radice”, citando Baudelaire, stai facendo proprio quello da cui Ruggenini tenta di distogliere i suoi allievi, ovvero la riduzione del linguaggio e della logica a strumento a disposizione dell’uomo. Si sente, nel termine che hai usato: “procedurale”, che richiama più un’etica intersoggettivistica del linguaggio (con tutte le pecche che questo comporta) che un’etica della parola ruggeninianamente (che bell’aggettivo) intesa. E tu che hai preso 30 in entrambi i moduli di teoretica, dovresti saperlo… :) Ora, tralasciamo una parentesi, che sarebbe da aprire, su cosa si intenda per poeticità e allusività del dire filosofico. Sappi solo che se per questo intendi una metaforicità intrinseca (come non mancava di sottolineare Nietzsce, ad esempio), allora posso anche essere d’accordo. Ma se per questo intendi quello che noi, “prescientificamente”, ovvero prima di qualsiasi seria teoria della creazione poetica, tendiamo a chiamare poesia, cioè l’accorata composizione in versi nelle rime e metriche più disparate, foriere di un senso più profondo di quello che lo stesso intelletto umano può arrivare a capire e quasi imperscrutabile… insomma, la concezione “romantica” della poesia (romantica è in minuscolo, come categoria “dello spirito” piuttosto che “della storia”) come un tutto vitale, di cui resta sempre un fondo oscuro di datità che sfugge ad ogni ratio, allora si dovrebbe aprire un’ulteriore discussione, che mi troverebbe d’accordo solo fino ad un certo punto. Tuttavia anche questa discussione non sarebbe del tutto fuori luogo: non è altro, infatti, che un altro modo per volgere la questione se la filosofia sia una scienza o un’arte, anche se hai forse messo lì con noncuranza questa frase (o forse no?). E anche qui, come nel resto del tuo discorso, occorre una definizione preliminare (di cosa intendiamo per scienza e per arte). [Postilla. Chiedo scusa, ma questo commento, a causa della lunghezza visibile, sta prendendo forma in diverse giornate, e non è quindi scritto di getto. Ho avuto modo di parlare brevemente con Leo di questo punto. Non rimuovo le considerazioni fatte finora. Ma capisco il punto di vista di Leonardo anche se gli consiglierei, secondo quello che mi è parso di capire della sua posizione, che il termine più giusto da usare in questo caso, secondo la scorta di Galimberti che il mio ottimo amico ha citato a sostegno del background su cui si impiantano le sue osservazioni, non sia tanto “procedurale” (che tanto il già citato Ruggenini come Galimberti parimenti aborrirebbero); piuttosto, consiglierei l’espressione: il linguaggio “evoca” e “provoca”, con i significati, densi e non hic et nunc analizzabili, di “e-vocare” e “pro-vocare”. Al singolo l’ardua comprensione.]
In cosa, è il punto cruciale, si distinguono la “Cultura” e la “cultura”? Concordo con lord Russell, anche se da un punto di vista più ermeneutico e meno logico (e quindi su tutt’altre basi filosofiche dalle quali andrà interpretata l’affermazione che seguirà), che mettere la conclusione all’inizio del discorso non sia un errore. Il tuo errore, semmai, è di esserti contraddetto senza accorgertene. Come puoi, infatti, distinguere una cultura con la C maiuscola e una con la c minuscola, quando poche righe più sotto scrivi che non c’è nulla di male se non hai specificato cosa sia la cultura, tanto è un concetto che si deve via via definire? In questo modo muovi già dal presupposto che, via negationis, Cultura e cultura siano differenti. Quindi, a tuo modo, stai già indirizzando l’interlocutore. Guarda, ci dici, c’è una Cultura astratta che non si sa bene cosa sia, e poi una cultura più concreta, che però anche questa non si sa bene cosa sia. Lo scopriremo solo vivendo. Comunque adesso ho un po’ paura, ora che quest’avventura sta diventando una storia vera. Spero tanto tu sia sincera. E chiudo con Battisti. Se effettivamente volessi muoverti secondo il tuo criterio di “prudenza metodologica”, non azzarderei nemmeno una distinzione tra una Cultura che mi puzza tanto da conceptus nel senso un po’ platonico del termine, e una cultura che pare più la raccolta dei documenti di una data civiltà in un dato periodo di tempo. [Senza contare, che ci sarebbe da aprire anche una parentesi sull’uso del termine “presente”, e di cosa significhi di conseguenza “cultura del presente”. Marc Bloch diceva, nella sua Apologia della storia, che gli storici contemporanei hanno la strana idea di chiamare “presente” un pezzo isolato di tempo, abbastanza vicino a noi nel senso di passato prossimo, ma abbastanza definito da un certo “indice di contemporaneità” che lo fa sembrare come un blocco a se stante rispetto al resto del tempo, come se la storia (è un paragone mio e non di Bloch) fosse composta da grandi zolle tettoniche che si scontrano tra loro. Ma in questo modo ragionano prevalentemente appunto gli storici contemporanei, che a buona (???) ragione ritengono il distacco tra il presente postbellico (nel senso dei conflitti mondiali) e quello prebellico talmente netto da poter operare il suddetto isolamento. Ma, da buon dilettante (di più non oso…) dell’ermeneutica, cosa sarebbe il nostro presente senza il nostro passato? Come possiamo essere quelli che siamo senza quello (e quelli) che siamo stati? Quindi, preferirei l’uso del termine “contemporaneo”, anche se non cambia un granché ai fini della nostra discussione. Pura e semplice “prudenza metodologica”.]
L’invito a “dire qualcosa” piuttosto che cercare la determinazione ontologica del significato, che per Ruggenini è l’invito di Metafisica gamma, è un invito che non posso che accogliere. Tuttavia, questo invito non si svolge a tavolino (sempre il fantasma del linguaggio a nostra disposizione!), ma durante la discussione, come giustamente tu hai accennato. Solo che non hai poi colto i frutti del tuo stesso suggerimento. Quando parli di Cultura e cultura mostri tuo malgrado di avere almeno una pallida idea di cosa l’una e l’altra siano e non siano (almeno nel senso che l’una non è l’altra e viceversa). Ma, forse, per intendersi al meglio è necessario appunto che ci si incontri (o scontri, ma anche lo scontro presuppone un comune terreno di battaglia) sul significato dei termini che usiamo nella discussione. Che ci siano una Cultura e una cultura resta una tesi ancora da dimostrare o inficiare (nel senso che devono essere portati argomenti a favore o contro). Che il significato di questi termini si chiarisca progressivamente nel corso della discussione, anche questo mi trova perfettamente d’accordo. Mi trova d’accordo pure che il luogo di definizione di questi concetti siano queste discussioni. Ma tu, come già visto, mostri di avere un concetto, se non proprio preciso, comunque sufficientemente saldo dei termini. Quindi, per maggiore comprensione, avresti dovuto spiegare cosa intendi per cultura.
Vale, in finale, il punto che più ti preme (non ti conoscessi!) del tuo intervento. “Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice”. E speravi, come hai ottenuto (furbacchione!) un nugolo di vespe in questa frase messa così per inciso, quasi a corredo delle osservazioni precedenti, ma non per questo centrale nel tuo discorso – invece noi, lavorando come il buon Heidegger negli incisi dei discorsi, non ci siamo sottratti a questa provocazione. Forse, la scienza dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice. La filosofia, perlomeno, pare che da tempo abbia se non rinunciato alla pretesa di pensarsi come ragione ordinatrice del tutto (mi riferisco alla crisi del sistema hegeliano, in primis), almeno preso in carico l’esame critico di questa pretesa. E questo, in fondo, come mi pare di aver capito, è anche uno dei sensi del nuovo logo di Metaclub (grazie Giulia, grazie Alessandro): la nottola di Minerva, il simbolo hegeliano della pretesa filosofica di pensarsi come il compimento e il sapere assoluto, e la mosca del §309 delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein. Due modelli di filosofia diversi che ancora animano il dibattito, mai concluso per fortuna (un segno? un indizio?), sul ruolo della filosofia, e sul ruolo che la filosofia stessa concepisce per se stessa. Che la filosofia sia destinataria del senso del reale, che possieda il logos del reale, nel senso della sua ragione ordinatrice, nel senso della normatività del reale, secondo il significato più carico che a questa espressione riesco a dare (e qui il problema si trasforma in ontologia squisita… era forse questo, il tuo obiettivo, che non è stato compreso?), è un problema che non è nuovo alla filosofia. Forse, è nuovo per molti filosofi. Ma, in fondo, la filosofia è nata come logos, come discorso del reale. Discorso che pretende anche, certamente, di esserne la ragione ordinatrice, di spiegarne l’essenza, di darne una definizione esauriente. E che, nonostante le varie crisi e scismi disciplinari, non ha forse mai perduto. Tuttavia, la crisi del sistema hegeliano e soprattutto le lezioni che ci vengono dallo storicismo tedesco alla svolta linguistica, ci hanno insegnato due cose che appaiono identiche, ma che non credo lo siano: da una parte, che è impossibile dare un fondamento (leggi: ragione ordinatrice) del tutto; dall’altro, che il tutto di cui vogliamo dare il fondamento è un tutto che non è definito in sé e per sé, ma è un tutto che in qualche modo è un concetto fluido. Mi spiego meglio. Il tutto in cui noi ci troviamo a vivere, e del cui senso ci domandiamo (non ritengo, infatti, che non si possa dare un senso al tutto, ma questo è una posizione che qui non ci interessa), è un tutto che non ha confini; e di qui, mi ricollego a quello che (a prima vista? o proprio di quello parlavi?) sembra il tuo obiettivo polemico, ovvero alla pretesa della filosofia di porsi come detentrice del senso assoluto (leggi ancora: ragione ordinatrice) delle parole – quasi come una “vendetta” per non potersi assicurare una solida presa sul “tutto”, che ormai è un “tutto” con le virgolette. È un tutto che non ha confini perché non è un elenco, una somma di nomi, una lista, un catalogo. Non è esauribile con una enumerazione. È un tutto la cui unità, come diceva Gentile criticando Hegel e l’abuso del principio di non contraddizione in filosofia, non è già prima (non è un dato) ma è sempre in via di determinazione (è sempre un costruito). Il problema, sempre seguendo Gentile (ma su una lunghezza d’onda simile anche Heidegger), è che la filosofia ha sempre descritto un divenire dipinto, ovvero non ha fatto altro che raccontare una storia che già tutti sapevamo, poiché mirava ad una determinazione che già c’era. È la ricerca dell’archè. La storia della filosofia ce lo dice chiaro e tondo. La filosofia (intesa, à la Heidegger, come metafisica) ha sempre dato per scontata una determinazione del mondo a priori, che si tratta “solo” di ricercare e rendere nota. Ma il mondo non è una determinazione a priori, come il parlare in termini di non contraddizione potrebbe farci pensare. Il mondo vive perché si determina. Ed è un’unità ben strana, che non si capisce in cosa possa essere identica a se stessa, a questo punto. Ma qui, la mia riflessione si interrompe. Avrò secoli (spero per me!) ancora da studiare per cercare di raffinare questi pensieri.
Per cui, forse la filosofia non può smettere di pensarsi come ragione ordinatrice, essendo questa la sua vocazione, ciò per cui è nata, ciò per cui letteralmente è chiamata. Piuttosto, nei confronti dell’ontologia come del suo rapporto con le parole, saggio sarebbe chiederci qual è questo “tutto” di cui la filosofia vorrebbe dare il senso complessivo. E distinguere magari (provoco volutamente) un Tutto da un tutto.
Una cosa è certa: la filosofia non può smettere di pensarsi.
questa volta tocca bacchettarti un po’ pure a me. Nonostante le parole finali del tuo post sembrino copiate da “Dire la verità”, lo sembrano solo. “Dalla parte della radice”, citando Baudelaire, stai facendo proprio quello da cui Ruggenini tenta di distogliere i suoi allievi, ovvero la riduzione del linguaggio e della logica a strumento a disposizione dell’uomo. Si sente, nel termine che hai usato: “procedurale”, che richiama più un’etica intersoggettivistica del linguaggio (con tutte le pecche che questo comporta) che un’etica della parola ruggeninianamente (che bell’aggettivo) intesa. E tu che hai preso 30 in entrambi i moduli di teoretica, dovresti saperlo… :) Ora, tralasciamo una parentesi, che sarebbe da aprire, su cosa si intenda per poeticità e allusività del dire filosofico. Sappi solo che se per questo intendi una metaforicità intrinseca (come non mancava di sottolineare Nietzsce, ad esempio), allora posso anche essere d’accordo. Ma se per questo intendi quello che noi, “prescientificamente”, ovvero prima di qualsiasi seria teoria della creazione poetica, tendiamo a chiamare poesia, cioè l’accorata composizione in versi nelle rime e metriche più disparate, foriere di un senso più profondo di quello che lo stesso intelletto umano può arrivare a capire e quasi imperscrutabile… insomma, la concezione “romantica” della poesia (romantica è in minuscolo, come categoria “dello spirito” piuttosto che “della storia”) come un tutto vitale, di cui resta sempre un fondo oscuro di datità che sfugge ad ogni ratio, allora si dovrebbe aprire un’ulteriore discussione, che mi troverebbe d’accordo solo fino ad un certo punto. Tuttavia anche questa discussione non sarebbe del tutto fuori luogo: non è altro, infatti, che un altro modo per volgere la questione se la filosofia sia una scienza o un’arte, anche se hai forse messo lì con noncuranza questa frase (o forse no?). E anche qui, come nel resto del tuo discorso, occorre una definizione preliminare (di cosa intendiamo per scienza e per arte). [Postilla. Chiedo scusa, ma questo commento, a causa della lunghezza visibile, sta prendendo forma in diverse giornate, e non è quindi scritto di getto. Ho avuto modo di parlare brevemente con Leo di questo punto. Non rimuovo le considerazioni fatte finora. Ma capisco il punto di vista di Leonardo anche se gli consiglierei, secondo quello che mi è parso di capire della sua posizione, che il termine più giusto da usare in questo caso, secondo la scorta di Galimberti che il mio ottimo amico ha citato a sostegno del background su cui si impiantano le sue osservazioni, non sia tanto “procedurale” (che tanto il già citato Ruggenini come Galimberti parimenti aborrirebbero); piuttosto, consiglierei l’espressione: il linguaggio “evoca” e “provoca”, con i significati, densi e non hic et nunc analizzabili, di “e-vocare” e “pro-vocare”. Al singolo l’ardua comprensione.]
In cosa, è il punto cruciale, si distinguono la “Cultura” e la “cultura”? Concordo con lord Russell, anche se da un punto di vista più ermeneutico e meno logico (e quindi su tutt’altre basi filosofiche dalle quali andrà interpretata l’affermazione che seguirà), che mettere la conclusione all’inizio del discorso non sia un errore. Il tuo errore, semmai, è di esserti contraddetto senza accorgertene. Come puoi, infatti, distinguere una cultura con la C maiuscola e una con la c minuscola, quando poche righe più sotto scrivi che non c’è nulla di male se non hai specificato cosa sia la cultura, tanto è un concetto che si deve via via definire? In questo modo muovi già dal presupposto che, via negationis, Cultura e cultura siano differenti. Quindi, a tuo modo, stai già indirizzando l’interlocutore. Guarda, ci dici, c’è una Cultura astratta che non si sa bene cosa sia, e poi una cultura più concreta, che però anche questa non si sa bene cosa sia. Lo scopriremo solo vivendo. Comunque adesso ho un po’ paura, ora che quest’avventura sta diventando una storia vera. Spero tanto tu sia sincera. E chiudo con Battisti. Se effettivamente volessi muoverti secondo il tuo criterio di “prudenza metodologica”, non azzarderei nemmeno una distinzione tra una Cultura che mi puzza tanto da conceptus nel senso un po’ platonico del termine, e una cultura che pare più la raccolta dei documenti di una data civiltà in un dato periodo di tempo. [Senza contare, che ci sarebbe da aprire anche una parentesi sull’uso del termine “presente”, e di cosa significhi di conseguenza “cultura del presente”. Marc Bloch diceva, nella sua Apologia della storia, che gli storici contemporanei hanno la strana idea di chiamare “presente” un pezzo isolato di tempo, abbastanza vicino a noi nel senso di passato prossimo, ma abbastanza definito da un certo “indice di contemporaneità” che lo fa sembrare come un blocco a se stante rispetto al resto del tempo, come se la storia (è un paragone mio e non di Bloch) fosse composta da grandi zolle tettoniche che si scontrano tra loro. Ma in questo modo ragionano prevalentemente appunto gli storici contemporanei, che a buona (???) ragione ritengono il distacco tra il presente postbellico (nel senso dei conflitti mondiali) e quello prebellico talmente netto da poter operare il suddetto isolamento. Ma, da buon dilettante (di più non oso…) dell’ermeneutica, cosa sarebbe il nostro presente senza il nostro passato? Come possiamo essere quelli che siamo senza quello (e quelli) che siamo stati? Quindi, preferirei l’uso del termine “contemporaneo”, anche se non cambia un granché ai fini della nostra discussione. Pura e semplice “prudenza metodologica”.]
L’invito a “dire qualcosa” piuttosto che cercare la determinazione ontologica del significato, che per Ruggenini è l’invito di Metafisica gamma, è un invito che non posso che accogliere. Tuttavia, questo invito non si svolge a tavolino (sempre il fantasma del linguaggio a nostra disposizione!), ma durante la discussione, come giustamente tu hai accennato. Solo che non hai poi colto i frutti del tuo stesso suggerimento. Quando parli di Cultura e cultura mostri tuo malgrado di avere almeno una pallida idea di cosa l’una e l’altra siano e non siano (almeno nel senso che l’una non è l’altra e viceversa). Ma, forse, per intendersi al meglio è necessario appunto che ci si incontri (o scontri, ma anche lo scontro presuppone un comune terreno di battaglia) sul significato dei termini che usiamo nella discussione. Che ci siano una Cultura e una cultura resta una tesi ancora da dimostrare o inficiare (nel senso che devono essere portati argomenti a favore o contro). Che il significato di questi termini si chiarisca progressivamente nel corso della discussione, anche questo mi trova perfettamente d’accordo. Mi trova d’accordo pure che il luogo di definizione di questi concetti siano queste discussioni. Ma tu, come già visto, mostri di avere un concetto, se non proprio preciso, comunque sufficientemente saldo dei termini. Quindi, per maggiore comprensione, avresti dovuto spiegare cosa intendi per cultura.
Vale, in finale, il punto che più ti preme (non ti conoscessi!) del tuo intervento. “Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice”. E speravi, come hai ottenuto (furbacchione!) un nugolo di vespe in questa frase messa così per inciso, quasi a corredo delle osservazioni precedenti, ma non per questo centrale nel tuo discorso – invece noi, lavorando come il buon Heidegger negli incisi dei discorsi, non ci siamo sottratti a questa provocazione. Forse, la scienza dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice. La filosofia, perlomeno, pare che da tempo abbia se non rinunciato alla pretesa di pensarsi come ragione ordinatrice del tutto (mi riferisco alla crisi del sistema hegeliano, in primis), almeno preso in carico l’esame critico di questa pretesa. E questo, in fondo, come mi pare di aver capito, è anche uno dei sensi del nuovo logo di Metaclub (grazie Giulia, grazie Alessandro): la nottola di Minerva, il simbolo hegeliano della pretesa filosofica di pensarsi come il compimento e il sapere assoluto, e la mosca del §309 delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein. Due modelli di filosofia diversi che ancora animano il dibattito, mai concluso per fortuna (un segno? un indizio?), sul ruolo della filosofia, e sul ruolo che la filosofia stessa concepisce per se stessa. Che la filosofia sia destinataria del senso del reale, che possieda il logos del reale, nel senso della sua ragione ordinatrice, nel senso della normatività del reale, secondo il significato più carico che a questa espressione riesco a dare (e qui il problema si trasforma in ontologia squisita… era forse questo, il tuo obiettivo, che non è stato compreso?), è un problema che non è nuovo alla filosofia. Forse, è nuovo per molti filosofi. Ma, in fondo, la filosofia è nata come logos, come discorso del reale. Discorso che pretende anche, certamente, di esserne la ragione ordinatrice, di spiegarne l’essenza, di darne una definizione esauriente. E che, nonostante le varie crisi e scismi disciplinari, non ha forse mai perduto. Tuttavia, la crisi del sistema hegeliano e soprattutto le lezioni che ci vengono dallo storicismo tedesco alla svolta linguistica, ci hanno insegnato due cose che appaiono identiche, ma che non credo lo siano: da una parte, che è impossibile dare un fondamento (leggi: ragione ordinatrice) del tutto; dall’altro, che il tutto di cui vogliamo dare il fondamento è un tutto che non è definito in sé e per sé, ma è un tutto che in qualche modo è un concetto fluido. Mi spiego meglio. Il tutto in cui noi ci troviamo a vivere, e del cui senso ci domandiamo (non ritengo, infatti, che non si possa dare un senso al tutto, ma questo è una posizione che qui non ci interessa), è un tutto che non ha confini; e di qui, mi ricollego a quello che (a prima vista? o proprio di quello parlavi?) sembra il tuo obiettivo polemico, ovvero alla pretesa della filosofia di porsi come detentrice del senso assoluto (leggi ancora: ragione ordinatrice) delle parole – quasi come una “vendetta” per non potersi assicurare una solida presa sul “tutto”, che ormai è un “tutto” con le virgolette. È un tutto che non ha confini perché non è un elenco, una somma di nomi, una lista, un catalogo. Non è esauribile con una enumerazione. È un tutto la cui unità, come diceva Gentile criticando Hegel e l’abuso del principio di non contraddizione in filosofia, non è già prima (non è un dato) ma è sempre in via di determinazione (è sempre un costruito). Il problema, sempre seguendo Gentile (ma su una lunghezza d’onda simile anche Heidegger), è che la filosofia ha sempre descritto un divenire dipinto, ovvero non ha fatto altro che raccontare una storia che già tutti sapevamo, poiché mirava ad una determinazione che già c’era. È la ricerca dell’archè. La storia della filosofia ce lo dice chiaro e tondo. La filosofia (intesa, à la Heidegger, come metafisica) ha sempre dato per scontata una determinazione del mondo a priori, che si tratta “solo” di ricercare e rendere nota. Ma il mondo non è una determinazione a priori, come il parlare in termini di non contraddizione potrebbe farci pensare. Il mondo vive perché si determina. Ed è un’unità ben strana, che non si capisce in cosa possa essere identica a se stessa, a questo punto. Ma qui, la mia riflessione si interrompe. Avrò secoli (spero per me!) ancora da studiare per cercare di raffinare questi pensieri.
Per cui, forse la filosofia non può smettere di pensarsi come ragione ordinatrice, essendo questa la sua vocazione, ciò per cui è nata, ciò per cui letteralmente è chiamata. Piuttosto, nei confronti dell’ontologia come del suo rapporto con le parole, saggio sarebbe chiederci qual è questo “tutto” di cui la filosofia vorrebbe dare il senso complessivo. E distinguere magari (provoco volutamente) un Tutto da un tutto.
Una cosa è certa: la filosofia non può smettere di pensarsi.