martedì 20 novembre 2007

Questioni di squisita ontologia...

Caro Leonardo,
questa volta tocca bacchettarti un po’ pure a me. Nonostante le parole finali del tuo post sembrino copiate da “Dire la verità”, lo sembrano solo. “Dalla parte della radice”, citando Baudelaire, stai facendo proprio quello da cui Ruggenini tenta di distogliere i suoi allievi, ovvero la riduzione del linguaggio e della logica a strumento a disposizione dell’uomo. Si sente, nel termine che hai usato: “procedurale”, che richiama più un’etica intersoggettivistica del linguaggio (con tutte le pecche che questo comporta) che un’etica della parola ruggeninianamente (che bell’aggettivo) intesa. E tu che hai preso 30 in entrambi i moduli di teoretica, dovresti saperlo… :) Ora, tralasciamo una parentesi, che sarebbe da aprire, su cosa si intenda per poeticità e allusività del dire filosofico. Sappi solo che se per questo intendi una metaforicità intrinseca (come non mancava di sottolineare Nietzsce, ad esempio), allora posso anche essere d’accordo. Ma se per questo intendi quello che noi, “prescientificamente”, ovvero prima di qualsiasi seria teoria della creazione poetica, tendiamo a chiamare poesia, cioè l’accorata composizione in versi nelle rime e metriche più disparate, foriere di un senso più profondo di quello che lo stesso intelletto umano può arrivare a capire e quasi imperscrutabile… insomma, la concezione “romantica” della poesia (romantica è in minuscolo, come categoria “dello spirito” piuttosto che “della storia”) come un tutto vitale, di cui resta sempre un fondo oscuro di datità che sfugge ad ogni ratio, allora si dovrebbe aprire un’ulteriore discussione, che mi troverebbe d’accordo solo fino ad un certo punto. Tuttavia anche questa discussione non sarebbe del tutto fuori luogo: non è altro, infatti, che un altro modo per volgere la questione se la filosofia sia una scienza o un’arte, anche se hai forse messo lì con noncuranza questa frase (o forse no?). E anche qui, come nel resto del tuo discorso, occorre una definizione preliminare (di cosa intendiamo per scienza e per arte). [Postilla. Chiedo scusa, ma questo commento, a causa della lunghezza visibile, sta prendendo forma in diverse giornate, e non è quindi scritto di getto. Ho avuto modo di parlare brevemente con Leo di questo punto. Non rimuovo le considerazioni fatte finora. Ma capisco il punto di vista di Leonardo anche se gli consiglierei, secondo quello che mi è parso di capire della sua posizione, che il termine più giusto da usare in questo caso, secondo la scorta di Galimberti che il mio ottimo amico ha citato a sostegno del background su cui si impiantano le sue osservazioni, non sia tanto “procedurale” (che tanto il già citato Ruggenini come Galimberti parimenti aborrirebbero); piuttosto, consiglierei l’espressione: il linguaggio “evoca” e “provoca”, con i significati, densi e non hic et nunc analizzabili, di “e-vocare” e “pro-vocare”. Al singolo l’ardua comprensione.]
In cosa, è il punto cruciale, si distinguono la “Cultura” e la “cultura”? Concordo con lord Russell, anche se da un punto di vista più ermeneutico e meno logico (e quindi su tutt’altre basi filosofiche dalle quali andrà interpretata l’affermazione che seguirà), che mettere la conclusione all’inizio del discorso non sia un errore. Il tuo errore, semmai, è di esserti contraddetto senza accorgertene. Come puoi, infatti, distinguere una cultura con la C maiuscola e una con la c minuscola, quando poche righe più sotto scrivi che non c’è nulla di male se non hai specificato cosa sia la cultura, tanto è un concetto che si deve via via definire? In questo modo muovi già dal presupposto che, via negationis, Cultura e cultura siano differenti. Quindi, a tuo modo, stai già indirizzando l’interlocutore. Guarda, ci dici, c’è una Cultura astratta che non si sa bene cosa sia, e poi una cultura più concreta, che però anche questa non si sa bene cosa sia. Lo scopriremo solo vivendo. Comunque adesso ho un po’ paura, ora che quest’avventura sta diventando una storia vera. Spero tanto tu sia sincera. E chiudo con Battisti. Se effettivamente volessi muoverti secondo il tuo criterio di “prudenza metodologica”, non azzarderei nemmeno una distinzione tra una Cultura che mi puzza tanto da conceptus nel senso un po’ platonico del termine, e una cultura che pare più la raccolta dei documenti di una data civiltà in un dato periodo di tempo. [Senza contare, che ci sarebbe da aprire anche una parentesi sull’uso del termine “presente”, e di cosa significhi di conseguenza “cultura del presente”. Marc Bloch diceva, nella sua Apologia della storia, che gli storici contemporanei hanno la strana idea di chiamare “presente” un pezzo isolato di tempo, abbastanza vicino a noi nel senso di passato prossimo, ma abbastanza definito da un certo “indice di contemporaneità” che lo fa sembrare come un blocco a se stante rispetto al resto del tempo, come se la storia (è un paragone mio e non di Bloch) fosse composta da grandi zolle tettoniche che si scontrano tra loro. Ma in questo modo ragionano prevalentemente appunto gli storici contemporanei, che a buona (???) ragione ritengono il distacco tra il presente postbellico (nel senso dei conflitti mondiali) e quello prebellico talmente netto da poter operare il suddetto isolamento. Ma, da buon dilettante (di più non oso…) dell’ermeneutica, cosa sarebbe il nostro presente senza il nostro passato? Come possiamo essere quelli che siamo senza quello (e quelli) che siamo stati? Quindi, preferirei l’uso del termine “contemporaneo”, anche se non cambia un granché ai fini della nostra discussione. Pura e semplice “prudenza metodologica”.]
L’invito a “dire qualcosa” piuttosto che cercare la determinazione ontologica del significato, che per Ruggenini è l’invito di Metafisica gamma, è un invito che non posso che accogliere. Tuttavia, questo invito non si svolge a tavolino (sempre il fantasma del linguaggio a nostra disposizione!), ma durante la discussione, come giustamente tu hai accennato. Solo che non hai poi colto i frutti del tuo stesso suggerimento. Quando parli di Cultura e cultura mostri tuo malgrado di avere almeno una pallida idea di cosa l’una e l’altra siano e non siano (almeno nel senso che l’una non è l’altra e viceversa). Ma, forse, per intendersi al meglio è necessario appunto che ci si incontri (o scontri, ma anche lo scontro presuppone un comune terreno di battaglia) sul significato dei termini che usiamo nella discussione. Che ci siano una Cultura e una cultura resta una tesi ancora da dimostrare o inficiare (nel senso che devono essere portati argomenti a favore o contro). Che il significato di questi termini si chiarisca progressivamente nel corso della discussione, anche questo mi trova perfettamente d’accordo. Mi trova d’accordo pure che il luogo di definizione di questi concetti siano queste discussioni. Ma tu, come già visto, mostri di avere un concetto, se non proprio preciso, comunque sufficientemente saldo dei termini. Quindi, per maggiore comprensione, avresti dovuto spiegare cosa intendi per cultura.
Vale, in finale, il punto che più ti preme (non ti conoscessi!) del tuo intervento. “Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice”. E speravi, come hai ottenuto (furbacchione!) un nugolo di vespe in questa frase messa così per inciso, quasi a corredo delle osservazioni precedenti, ma non per questo centrale nel tuo discorso – invece noi, lavorando come il buon Heidegger negli incisi dei discorsi, non ci siamo sottratti a questa provocazione. Forse, la scienza dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice. La filosofia, perlomeno, pare che da tempo abbia se non rinunciato alla pretesa di pensarsi come ragione ordinatrice del tutto (mi riferisco alla crisi del sistema hegeliano, in primis), almeno preso in carico l’esame critico di questa pretesa. E questo, in fondo, come mi pare di aver capito, è anche uno dei sensi del nuovo logo di Metaclub (grazie Giulia, grazie Alessandro): la nottola di Minerva, il simbolo hegeliano della pretesa filosofica di pensarsi come il compimento e il sapere assoluto, e la mosca del §309 delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein. Due modelli di filosofia diversi che ancora animano il dibattito, mai concluso per fortuna (un segno? un indizio?), sul ruolo della filosofia, e sul ruolo che la filosofia stessa concepisce per se stessa. Che la filosofia sia destinataria del senso del reale, che possieda il logos del reale, nel senso della sua ragione ordinatrice, nel senso della normatività del reale, secondo il significato più carico che a questa espressione riesco a dare (e qui il problema si trasforma in ontologia squisita… era forse questo, il tuo obiettivo, che non è stato compreso?), è un problema che non è nuovo alla filosofia. Forse, è nuovo per molti filosofi. Ma, in fondo, la filosofia è nata come logos, come discorso del reale. Discorso che pretende anche, certamente, di esserne la ragione ordinatrice, di spiegarne l’essenza, di darne una definizione esauriente. E che, nonostante le varie crisi e scismi disciplinari, non ha forse mai perduto. Tuttavia, la crisi del sistema hegeliano e soprattutto le lezioni che ci vengono dallo storicismo tedesco alla svolta linguistica, ci hanno insegnato due cose che appaiono identiche, ma che non credo lo siano: da una parte, che è impossibile dare un fondamento (leggi: ragione ordinatrice) del tutto; dall’altro, che il tutto di cui vogliamo dare il fondamento è un tutto che non è definito in sé e per sé, ma è un tutto che in qualche modo è un concetto fluido. Mi spiego meglio. Il tutto in cui noi ci troviamo a vivere, e del cui senso ci domandiamo (non ritengo, infatti, che non si possa dare un senso al tutto, ma questo è una posizione che qui non ci interessa), è un tutto che non ha confini; e di qui, mi ricollego a quello che (a prima vista? o proprio di quello parlavi?) sembra il tuo obiettivo polemico, ovvero alla pretesa della filosofia di porsi come detentrice del senso assoluto (leggi ancora: ragione ordinatrice) delle parole – quasi come una “vendetta” per non potersi assicurare una solida presa sul “tutto”, che ormai è un “tutto” con le virgolette. È un tutto che non ha confini perché non è un elenco, una somma di nomi, una lista, un catalogo. Non è esauribile con una enumerazione. È un tutto la cui unità, come diceva Gentile criticando Hegel e l’abuso del principio di non contraddizione in filosofia, non è già prima (non è un dato) ma è sempre in via di determinazione (è sempre un costruito). Il problema, sempre seguendo Gentile (ma su una lunghezza d’onda simile anche Heidegger), è che la filosofia ha sempre descritto un divenire dipinto, ovvero non ha fatto altro che raccontare una storia che già tutti sapevamo, poiché mirava ad una determinazione che già c’era. È la ricerca dell’archè. La storia della filosofia ce lo dice chiaro e tondo. La filosofia (intesa, à la Heidegger, come metafisica) ha sempre dato per scontata una determinazione del mondo a priori, che si tratta “solo” di ricercare e rendere nota. Ma il mondo non è una determinazione a priori, come il parlare in termini di non contraddizione potrebbe farci pensare. Il mondo vive perché si determina. Ed è un’unità ben strana, che non si capisce in cosa possa essere identica a se stessa, a questo punto. Ma qui, la mia riflessione si interrompe. Avrò secoli (spero per me!) ancora da studiare per cercare di raffinare questi pensieri.
Per cui, forse la filosofia non può smettere di pensarsi come ragione ordinatrice, essendo questa la sua vocazione, ciò per cui è nata, ciò per cui letteralmente è chiamata. Piuttosto, nei confronti dell’ontologia come del suo rapporto con le parole, saggio sarebbe chiederci qual è questo “tutto” di cui la filosofia vorrebbe dare il senso complessivo. E distinguere magari (provoco volutamente) un Tutto da un tutto.
Una cosa è certa: la filosofia non può smettere di pensarsi.

giovedì 15 novembre 2007

Una digressione metodologica

Tyger, tyger, burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

(The tyger, W. Blake)


Ho apprezzato molto alcune critiche che sono giunte in seguito alla pubblicazione del mio articolo, sono state spunto di riflessione e discussione.
Il mestiere dello “scrittore”, inteso come colui che scrive (dei post su un blog), è certo difficile: ci si espone con le proprie idee e si cerca di tracciare una linea, un percorso logico, nel mezzo della selva delle altrui opinioni; in tal modo, si è esposti alle osservazioni che possono giungere inaspettate da ogni parte. Ed è proprio in questo che sta il bello del gioco! Anche il mestiere del critico però presenta le sue insidie, lanciarsi in cesure nette infatti può portare al fraintendimento. Ora mi permetterò di riordinare un poco le idee, riprendendo il filo del ragionamento dove lo si era lasciato.

Penso infatti di non aver “corretto il tiro”, ma soltanto di aver ribadito quanto già stava scritto nel mio articolo. Non era infatti mio obiettivo scrivere un Trattato sulla cultura universale dalle origini ai giorni nostri, volevo soltanto descrivere a grandissime linee il percorso che a mio parere si può rintracciare nella cultura italiana “di sinistra” negli ultimi cinquanta-sessanta anni, quindi ho parlato del rapporto che molti intellettuali hanno avuto con i partiti di sinistra e di come questo abbia portato ad un particolare rapporto tra il mondo della cultura e la politica in Italia. Il carattere dell’intellettuale italiano non si dovrebbe ricercare così in profondità come mi è stato suggerito (ovvero rimandando alla Antropologia pragmatica di Kant), dandone quindi una lettura “estetizzante”. Il nostro discorso andrebbe forse confinato alla nostra realtà, in una continuità spazio-temporale che ci permetterebbe di trovare maggiori chiavi di lettura e connessioni con l’attualità.

Non è di questo però che voglio parlare, piuttosto mi soffermerei su quella vaghezza terminologica che sembra pregiudicare il mio discorso. Non ho volutamente dato una definizione di “cultura” proprio perché ritengo che il discorso filosofico – spesso tanto apprezzato perché poetico e allusivo – sia schiavo della voglia di definire qualsiasi oggetto gli si presenti davanti. Ritengo invece che il valore “procedurale” di una esposizione la salvaguardi dal rischio di dogmatismo: porre all’inizio di un ragionamento la sua conclusione non è certo una premessa corretta.
Come dire allora che cos’è la “Cultura”? Molto meglio limitarsi alla più prosaica “cultura”, ad un insieme di manifestazioni contenuto e tangibile; in altri termini, non conviene pensare al termine astratto, che dice tutto e nulla, è preferibile parlare di ciò che si conosce e si può valutare. Se poi cultura sia l’insieme delle pubblicazioni accademiche o invece riguardi tutte le produzioni artistiche – e non – di cui possiamo usufruire, è una bella questione destinata a rimanere irrisolta. Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice. È più stimolante porre la questione senza preoccuparsi di doverne “incorniciare” i termini, lasciando cioè che sia il discorso a chiarire l’oggetto che stiamo cercando di conoscere: più si procede nel ragionamento e più si mettono a fuoco i contorni, perché solo lavorando sui particolari si può avere una comprensione ben definita, anche se magari non completa; cercare la visione d’insieme spesso conduce alla distorsione della realtà. Scambiare questa “vaghezza metodica” per mancanza di rigore argomentativo, può essere una posizione accettabile e comprensibile, ma secondo me la differenza c’è ed è sostanziale: la prima è un comportamento dettato dall’onestà di scrive, la seconda non porta di fatto a nessuna conclusione plausibile.
Ho voluto anche questa volta gettare un sasso nello stagno, per stimolare la reazione di qualcuno, e – soprattutto - per provare a muovere un primo passo in un territorio sconosciuto. Certamente il nostro dibattito mi porterà a chiarire e magari a cambiare la mia opinione, ma proprio in questa possibilità sta il valore di ciò che ho scritto.
(Mister Orange)

mercoledì 7 novembre 2007

Nasce il gruppo di METACLUB su Google

Salve!
Piccolo intermezzo, tra le interessantissime discussioni, per avvisare tutti coloro che stanno contribuendo che è nato il gruppo d METACLUB su Google. Per rimanere sempre up-to-date e comunicare in maniera molto rapida con chiunque faccia parte del gruppo. Naturalmente, non vogliamo che le discussioni si spostino tutte là, anzi per quelle utilizzate il blog. Ma per tutto quello che concerne discorsi collaterali, messa a fuoco di nuovi temi che vi interesserebbe trattare in futuro, rimanere aggiornati sul completamento del primo ciclo di conferenze, dare consigli in merito, ecc., siamo dell'idea che il gruppo rappresenti una utile risorsa. L'unica cosa necessaria è il vostro account su Google, che già possedete in quanto potete pubblicare su questo blog. Il link al gruppo si trova insieme agli altri link utili, nella colonna alla vostra destra.
Arrivederci, e grazie!

lunedì 5 novembre 2007

E la cultura da che parte sta?

Ovviamente, né a destra né a sinistra; la Cultura è qualcosa di così astratto che a pensarla con un certo colore politico addosso le si farebbe violenza. Però, è pur vero che quando pensiamo all’uomo di cultura – chiamiamolo pure intellettuale – un’idea in testa ce l’abbiamo: il nostro pensiero va dritto verso quello stereotipo dell’omino curvo dietro una montagna di libri, con gli occhiali spessi, sempre pensoso. E di sinistra.
Siamo abituati a sovrapporre l’idea di “cultura di sinistra” con quella di cultura in senso lato. È per noi difficile immaginare un intellettuale dotato di una grande carica personalistica, vitale, di tipo d’annunziano; piuttosto, ci figuriamo un misto tra Leopardi e Sartre, ovvero quella figura del pensatore chiuso nella sua erudizione, che con un fondo di snobismo guarda al mondo e pretende addirittura di poterlo cambiare. È quello stesso personaggio che fece scrivere a Prévert: “La differenza tra un intellettuale e un operaio? L’operaio si lava le mani prima di pisciare e l’intellettuale dopo”.
Eppure non ritengo che ovunque sia così, anzi, questa è una peculiarità tutta italiana e non appartiene ad altre realtà, come quella anglosassone. Una lunga e complessa serie di motivazioni storiche hanno portato un vecchio partito - il Pci - a interessarsi alle vicende culturali italiane e a costituire il fulcro centrale di gran parte dell'ambiente intellettuale italiano per un lungo periodo del Novecento. Grandi intellettuali e artisti hanno sentito la necessità di doversi confrontare e scontrare con questa ingombrante presenza, si può andare da Calvino, a Pasolini, da R. Rossanda a Sanguineti; tutti questi però non erano sottomessi a una dialettica culturale imposta da una forza politica, ma piuttosto trovavano nell'impegno di un partito la controparte a cui far riferimento. Non era cioè il Pci a dettare la linea, ma gli artisti ad andare incontro al partito.
Ciò avveniva probabilmente perché le tematiche che caratterizzavano molti di questi intellettuali erano attente ai problemi che manifestava la società dell'epoca, terreno sul quale le forze politiche di sinistra erano già attive (e non esisteva solo il Pci). Invece gli intellettuali di destra hanno sempre avuto un atteggiamento distaccato, più introspettivo, meno votato al lato “pubblico” della loro produzione, così come anche molti partiti di destra hanno sempre fatto.
Questo fenomeno ha portato a una particolare dicotomia tra società e mondo della cultura, con una evidente sproporzione tra le parti - destra e sinistra - che nei due settori erano rappresentate in modo molto diverso. Ad esempio bisognerebbe pensare a quel gran movimento culturale che si ebbe nel '68, pareva che tutta la società italiana - dall'intellettuale all'operaio - fosse pronta al cambiamento, e invece sotto quella enorme carica “rivoluzionaria” stava ben nascosta la cosiddetta “maggioranza silenziosa”, sicuramente tendente a destra, o almeno al centro, non di certo impegnata, engagée, poco visibile; però, proprio questa maggioranza poi determinava l'andamento politico italiano, nonostante l'apparenza fosse quella di una dominate cultura di sinistra.
Credo che questo sia lo strano rapporto tra cultura e politica, a destra come a sinistra, con la conseguente abitudine a immaginare il mondo culturale (italiano) come manifestazione "di sinistra" e, perciò, conformistico.
Rimane ora da ricercare la cultura di destra, perché questa mia breve scorribanda (pseudo)storica lascia spazio a un’alternativa: o la “cultura di destra” si manifesta in modo meno appariscente e sembra influenzare una porzione minoritaria del pensiero corrente, oppure la Destra non ha una vera e propria cultura e ciò che la guida è quel pensiero che si sviluppa nel vuoto lasciato da altri. Questa seconda scelta però mette in crisi una supposta simmetria tra le parti – mettendo indirettamente in difficoltà anche la Sinistra, che si troverebbe ad assumere un ruolo di egemonia che la realtà pare non assegnarle.
(Mister Orange)