giovedì 15 novembre 2007

Una digressione metodologica

Tyger, tyger, burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

(The tyger, W. Blake)


Ho apprezzato molto alcune critiche che sono giunte in seguito alla pubblicazione del mio articolo, sono state spunto di riflessione e discussione.
Il mestiere dello “scrittore”, inteso come colui che scrive (dei post su un blog), è certo difficile: ci si espone con le proprie idee e si cerca di tracciare una linea, un percorso logico, nel mezzo della selva delle altrui opinioni; in tal modo, si è esposti alle osservazioni che possono giungere inaspettate da ogni parte. Ed è proprio in questo che sta il bello del gioco! Anche il mestiere del critico però presenta le sue insidie, lanciarsi in cesure nette infatti può portare al fraintendimento. Ora mi permetterò di riordinare un poco le idee, riprendendo il filo del ragionamento dove lo si era lasciato.

Penso infatti di non aver “corretto il tiro”, ma soltanto di aver ribadito quanto già stava scritto nel mio articolo. Non era infatti mio obiettivo scrivere un Trattato sulla cultura universale dalle origini ai giorni nostri, volevo soltanto descrivere a grandissime linee il percorso che a mio parere si può rintracciare nella cultura italiana “di sinistra” negli ultimi cinquanta-sessanta anni, quindi ho parlato del rapporto che molti intellettuali hanno avuto con i partiti di sinistra e di come questo abbia portato ad un particolare rapporto tra il mondo della cultura e la politica in Italia. Il carattere dell’intellettuale italiano non si dovrebbe ricercare così in profondità come mi è stato suggerito (ovvero rimandando alla Antropologia pragmatica di Kant), dandone quindi una lettura “estetizzante”. Il nostro discorso andrebbe forse confinato alla nostra realtà, in una continuità spazio-temporale che ci permetterebbe di trovare maggiori chiavi di lettura e connessioni con l’attualità.

Non è di questo però che voglio parlare, piuttosto mi soffermerei su quella vaghezza terminologica che sembra pregiudicare il mio discorso. Non ho volutamente dato una definizione di “cultura” proprio perché ritengo che il discorso filosofico – spesso tanto apprezzato perché poetico e allusivo – sia schiavo della voglia di definire qualsiasi oggetto gli si presenti davanti. Ritengo invece che il valore “procedurale” di una esposizione la salvaguardi dal rischio di dogmatismo: porre all’inizio di un ragionamento la sua conclusione non è certo una premessa corretta.
Come dire allora che cos’è la “Cultura”? Molto meglio limitarsi alla più prosaica “cultura”, ad un insieme di manifestazioni contenuto e tangibile; in altri termini, non conviene pensare al termine astratto, che dice tutto e nulla, è preferibile parlare di ciò che si conosce e si può valutare. Se poi cultura sia l’insieme delle pubblicazioni accademiche o invece riguardi tutte le produzioni artistiche – e non – di cui possiamo usufruire, è una bella questione destinata a rimanere irrisolta. Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come ragione ordinatrice. È più stimolante porre la questione senza preoccuparsi di doverne “incorniciare” i termini, lasciando cioè che sia il discorso a chiarire l’oggetto che stiamo cercando di conoscere: più si procede nel ragionamento e più si mettono a fuoco i contorni, perché solo lavorando sui particolari si può avere una comprensione ben definita, anche se magari non completa; cercare la visione d’insieme spesso conduce alla distorsione della realtà. Scambiare questa “vaghezza metodica” per mancanza di rigore argomentativo, può essere una posizione accettabile e comprensibile, ma secondo me la differenza c’è ed è sostanziale: la prima è un comportamento dettato dall’onestà di scrive, la seconda non porta di fatto a nessuna conclusione plausibile.
Ho voluto anche questa volta gettare un sasso nello stagno, per stimolare la reazione di qualcuno, e – soprattutto - per provare a muovere un primo passo in un territorio sconosciuto. Certamente il nostro dibattito mi porterà a chiarire e magari a cambiare la mia opinione, ma proprio in questa possibilità sta il valore di ciò che ho scritto.
(Mister Orange)

3 commenti:

il consigliere del principe ha detto...

C'è da domandarsi piuttosto se sia cultura quella che non influisce in nulla nella politica. Prendiamo il tuo Pasolini: tanto scandalo, ma un programmatico rimanere ingabbiato nella contraddizione, non uscirne e alla fine dare soltanto un'indicazione di voto per il pci. E' servito? No, il pci non è mai uscito dal suo essere partito stalinista con politica socialdemocratica. La verità è che il modello della maggior parte degli intellettuali italiani "de sinistra" è stata quella del modello gramsciano dell'intellettuale organico (ma non certo di Gramsci!), buono solo a mettere la cultura a servizio dei fini politico-parlamentari (e quindi non politici) del partito. Modello opposto sono stati veramente in pochi, uno su tutti Franco Fortini, non a acaso eterna polemica con Pasolini, non a caso di origine psi e non pci, vero intellettuale comunista e non stalinianamente organico. Fortini non era di certo come quegli intellettuali che per seguire il potere hanno seguito la linea (coerente solo nella gestione del potere, non certo operaia-democratica-popolare) pci-pds-ds-pd.
Per quanto riguarda la cultura di destra: io non penso affatto che la cultura si possa dividere in cultura di destra e cultura di sinistra, quindi parlerei di intellettuali che si sono schierati a destra. Dunque, se parliamo di secondo dopoguerra, quale destra? Non esiste una destra dichiarata, se non extra-parlamentare, e, bisogna dirlo, in questo caso, un intellettuale schierato con l'msi sarebbe stato molto ma molto più coraggioso di un intellettuale schierato con il pci. Ma sono stati veramente pochi ed emarginati. Ci sono stati molti intellettuali cattolici schierati con la dc, chiaramente di destra (e se non è destra quella mi domando cosa sia destra), come Augusto Del Noce. La superiorità della cultura "de sinistra" è un mito da sfatare. Ieri su Repubblica c'era un titolo incredibile "Anche la sinisra è infiltrata dalla camorra", una frase di Saviano. Ma no, pensavamo che la sinistra fosse immacolata e sacra! Questo per dire come certi "giornali" (meglio, bollettini di partito) di certi "intellettuali" trattano l'idea di sinistra.

metaclub ha detto...

[Metaclub per conto di Lord Russell]

Caro Leonardo,

mi spiace ma questa volta siamo d'accordo solo, mi sembra, in piccola
parte. Mi soffermerei ad esempio sul termine cultura: non ho capito se
il termine è "tangibile" oppure se è una questione che non può essere
risolta. Io da buon logico mi schiero dalla parte della definibilità dei
termini! E' ovviamente un problema non di poco conto se i termini
primitivi siano definibili o meno; secondo Husserl, per esempio, i termini
primitivi non possono essere definiti (ed ecco che ci viene in aiuto la
fenomenologia), per Frege invece vanno e possono essere definiti. La
cultura però non mi sembra un termine primitivo, quindi penso se ne possa
dare una definizione. Certamente spesso il termine cultura è affetto
da una certa vaghezza, ma un conto è la vaghezza "de re" un conto quella
"de dicto". Prima di tutto distinguerei due modi differenti di usare
il termine cultura: da una parte i modi, i costumi e gli usi di un
popolo, dall'altra la conoscenza accademica che questo produce. Qualche
volta, e sottolineo nei momenti migliori, le due istanze si incrociano e si
richiamano a vicenda. Così è ad esempio la civiltà perfetta di
Campanella nella Città del Sole, in cui i Solari vivono in perfetta armonia
con il sapere scientifico e la loro vita è scandita unicamente dai
rintocchi della conoscenza. Qual è il ruolo della filosofia in tutto questo?
Tu scrivi che "Forse la filosofia dovrebbe smettere di pensarsi come
ragione ordinatrice". Non credo di condividere anche con quel forse a
capo la tua posizione. Le domande che ti farei sono a questo punto due: se
la filosofia non è ragione ordinatrice allora chi lo è? E se, di
nuovo, la filosofia non lo è questo significa che deve esserci una ragione
ordinatrice o che dobbiamo essere schiavi di quello che tu chiami
"valore procedurale"? Non che io abbia capito che cosa sia questo "valore
procedurale" ma suppongo che per essere coerente con la tua posizione
dirai che non si può definire. Se è così allora a che cosa serve la
filosofia se non a riflettere sulla terminologia che usiamo? Non si tratta
secondo me di trasformare l'amore per il sapere in amore per la
pedanteria, ma di dare effettiva importanza alla filosofia. Altrimenti che cosa
ci resta se non il discorso che va da sé, come il fiume di Eraclito?
Solo che almeno Eraclito qualche legge la teneva ferma, diceva ad esempio
che non si può passare sullo stesso fiume due volte! Se tu neghi il
valore della filosofia come ordine e rigore vieni a negare la stessa
possibilità del filosofo di pronunciarsi sulla chiarezza dei termini e
quindi escludi la stessa condizione minimale del fare filosofia.


PS. Pedanteria logica: il circolo vizioso che tu hai definito come
porre la conclusione all'inizio del discorso non è propriamente un errore
logico.

Lord Russell

Leonardo ha detto...

Caro Lord Russell,
mi permetto di citare un passo del tuo commento per semplicità: “Se tu neghi il valore della filosofia come ordine e rigore vieni a negare la stessa possibilità del filosofo di pronunciarsi sulla chiarezza dei termini e quindi escludi la stessa condizione minimale del fare filosofia”. Ecco, su questo punto mi trovo perfettamente d’accordo con te e ti ringrazio per l’analisi che ha messo in rilievo le (molte) mancanze del mio ultimo articolo. Cercherò di spiegarmi meglio.

Quando parlo di “filosofia come ragione ordinatrice” faccio riferimento a quel modo di pensare di alcuni filosofi che mi dà l’impressione vogliano dire “come stanno le cose” senza dare il minimo spazio alla discussione. Qui invece la situazione è profondamente diversa: il blog è un’occasione di dialogo, perciò non ritenevo corretto aprire la discussione con una serie definizioni, l’intenzione era quella di iniziare un dibattito – quasi socratico! – sul tema della cultura; quindi il mio articolo era un modo come un altro per chiedere “che cos’è la cultura?”.

Riguardo a questo misterioso “valore procedurale”, mi appello a quella citazione di Blake (e al giochino di parole tra “frame” e “incorniciare”). La cosa che più mi preoccupa è quando si cerca di “inscatolare” un argomento, di stabilire qual è il suo inizio e la sua fine prima ancora di iniziare la ricerca. E questa è una semplice regola di buon senso. Non vorrei fraintendere, ma mi pare che sostenere che ci sia da qualche parte una “ragione ordinatrice”, presuppone che si debba avere anche un oggetto da ordinare, e questo comporta una serie di ricadute non di poco conto. Allora preferisco un pensiero che dia meno certezze ma permetta di procedere con più ordine: intendevo dire che la filosofia dovrebbe avere un metodo argomentativo rigoroso (valore procedurale), ma non pretendersi onnipotente.

Riguardo alla vaghezza della “cultura” – di certo “de re” – credo che cercare delle definizioni troppo precise rischi di forzare la struttura argomentativa e portare ad una chiarificazione eccessiva per i nostri mezzi. Insomma, chi può dividere la cultura in “accademica” e “popolare” con la certezza che un altro criterio non intervenga a mutare le carte in tavola? La nostra differenza di vedute sta forse qui, io considero la “cultura” un termine primitivo, indefinibile per la semplice ragione che tra un sistema descrittivo e la “realtà” stiamo noi, esseri umani, con tutti le vaghezze di cui siamo capaci. La difficoltà di dire cos’è la cultura, mi ricorda tanto un’altra domanda: “che cos’è l’arte?”; forse lo sanno solo gli artisti (ma qui si entra in un apparente circolo vizioso che è meglio non affrontare ora). Tutto ciò però non significa che la filosofia non possa fare un discorso serio e logicamente rigoroso (debole?), ma vorrei riconoscere i limiti della nostra azione speculativa.

Mister Orange


PS: Garrulus, a breve ti risponderò, grazie dell’intervento.